Conversazione tra Gianluca Cangemi [GC] e Willy Merz [WM]
Registrata via Zoom in due sessioni nello stesso giorno, con premessa di scambio email. Successivamente trascritta ed editata.
[GC] Vorrei avviare questo incontro tra amici e musici in un modo forse un po’ inusuale. Confesserò infatti ora qualcosa di intimo, forse una fragilità personale, come punto di partenza per iniziare a condividere storie e pensieri. Sei d’accordo?
[WM] Be’, i musicisti sono esseri umani, abbiamo anche noi come chiunque le nostre fragilità!
[GC] Come te faccio oggi il compositore di musica, tra varie cose, e sono cittadino italiano. Quindi sono un europeo, un cosiddetto Occidentale. Però, a dispetto di queste caratteristiche, ho avvertito fin da ragazzino un disagio, forte e costante, quando s’è trattato d’inquadrare me stesso appieno nella musica d’arte europea di tradizione scritta. Mi riferisco a quella che in genere, pur impropriamente, viene chiamata “Musica Classica”, e che oggi è detta “Musica Contemporanea” se chi la fa ha la bizzarra caratteristica di essere ancora in vita. Mi ci sono sempre sentito a disagio, sebbene siano tradizioni che amo, in cui anche mi sono formato, e i cui esiti riconosco come uno dei miei radicamenti, con commozione e affetto. Col tempo, attraverso varie elaborazioni personali e – per dirla coi Beatles – with a little help from my friends, ho poi capito che quel disagio era soprattutto il riflesso interiore d’una crisi di civiltà, uno dei tanti sintomi dell’epoca in cui ci troviamo a vivere. In certo modo, se avessi riconosciuto me stesso come Occidentale, senza criticità, avrei dovuto accettare anche gli orrori e il collasso. È come uno spaesamento, per cui fai delle cose, riconosci tradizioni, legami, storie, e però non ti senti mai del tutto a casa, come se ci fosse un costante rumore di fondo a impedire gioia e chiarezza in quel che fai e vivi. Mi pare peraltro che un certo senso di spaesamento, molto più in generale, sia piuttosto diffuso in tanti modi e con varie gradazioni, condiviso magari anche con chi si imbatterà nella nostra conversazione. Anche per questo voglio avviare quest’incontro dall’interrogazione di questo disagio, senza far finta che vada tutto bene attorno a noi, senza fingere che chi fa musica viva in una specie di strano Iperuranio, né che fare musica sia cosa che riguarda solo musicisti e cosiddetti appassionati, una cosa astratta dal
mondo.
[WM] Il mio istinto d’artigiano è sempre contrario alle astrazioni! Mi pare anche evidente che stiamo vivendo un tracollo culturale di massa…
[GC] Peraltro secondo me è un tracollo talmente pervasivo da indurci a credere che quel senso di disagio o spaesamento sia un nostro problema, qualcosa di individuale soltanto, che ciascuno deve risolvere da sé. Per esempio, quando ho cominciato a interrogare quel mio disagio d’appartenenza alle tradizioni
cosiddette Occidentali, ne individuai le ragioni in prima battuta solo nella mia provenienza sociale, dunque tutto si sarebbe risolto con una scalata sociale, attraverso la formazione. Vengo infatti da famiglia di radice contadina, non urbana né borghese, e quindi quel disagio poteva pure avere una ragione in un
certo senso di inadeguatezza sociale, come se fossi una sorta di abitante abusivo di un mondo altrui. Questa componente dei nostri disagi è certo presente, perché viviamo in una società fortemente classista, in cui spesso le arti vengono espropriate alla collettività e quindi finiscono prigioniere di specifici gruppi
sociali, ridotte a status symbol. Tu hai mai provato, magari ai tuoi inizi, un disagio simile a questo?
[WM] Ho provato un certo disagio quando poi ho cominciato a voler fare il compositore, ma di altra natura e non fin dall’inizio. Se rimontiamo alle origini familiari della vocazione musicale, la mia situazione era alquanto diversa dalla tua. Praticamente tutti intorno a me si occupavano di arte o di musica, più o meno professionalmente: nonna, zio, zia, mamma e papà. Quindi, anche se fino ai dieci anni di età ero convinto che avrei fatto l’architetto urbanista e mi divertivo a disegnare piantine di città, l’inserimento nella musica d’arte fu in fondo abbastanza naturale.